Dal 2011 ci siamo sempre occupati di fusione fredda e affini ma, dato che l’argomento non appare più di bruciante attualità, ci possiamo concedere la libertà di ospitare temi di altra natura, se sono trattati con la competenza e la proprietà formale cui ci ha abituati il Prof. Giorgio Masiero.
Buona lettura e buona riflessione a tutti.
Copernicanesimi di ieri e di oggi
Nel 1609, l’anno in cui Galileo costruiva il primo telescopio e iniziava la sua conversione all’eliocentrismo, Keplero pubblicava a Praga “Astronomia Nova seu physica coelestis, tradita commentariis de motibus stellae Martis ex observationibus Tychonis Brahe”, dove esponeva i risultati di 10 anni di calcoli sui dati astronomici raccolti a occhio nudo insieme a Tycho Brahe. In chiusura apparivano 2 delle 3 leggi che portano il suo nome. La terza sarebbe apparsa 10 anni dopo in un altro libro di Keplero, “Harmonices mundi” (1619).
Si rimane scioccati nel vedere – per esempio, tramite la digitale Biblioteca Europea di Milano – la mole di numeri raccolti dai due scienziati, ogni giorno per 30 anni. La loro meticolosità gli permise di misurare le parallassi planetarie con un’accuratezza di un minuto d’arco! Tutti i dati, in vista di ricavare le leggi sottostanti ai moti celesti, vennero ovviamente elaborati a penna (d’oca).
I moti orbitali dei pianeti fino a Saturno erano stati osservati, già molti secoli prima, da babilonesi e greci altrettanto pazientemente, ma non altrettanto accuratamente di Brahe, né con le stesse conoscenze matematiche di Keplero. Gli antichi avevano giudicato i moti della Luna e del Sole circolari intorno alla Terra e quelli degli altri pianeti circolari intorno a centri ruotanti intorno alla Terra (“epicicli”). Fu la matematica di Keplero applicata ai dati di Brahe a trovare che le orbite dei pianeti sono ellissi aventi un fuoco nel Sole: la prima legge di Keplero, appunto. Le orbite circolari ed epicicloidali dell’astronomia classica erano state la prima descrizione scientifica dei moti nel sistema solare, in un’approssimazione perdurata millenni, abbastanza buona essendo le ellissi di Keplero quasi-circolari. Oltre che più precisa, la descrizione di Keplero è più elegante: prendendo a riferimento il Sole, le orbite si riducono per tutti i pianeti a tonde ellissi, piuttosto che le contorte epicicloidi di Tolomeo. Ciò legittimava in un punto (secondo il rasoio di Occam) il sistema eliocentrico, proposto 66 anni prima da Copernico su pure basi teologiche, rispetto a quello classico aristotelico-tolemaico. Ma rimanevano altre frecce “scientifiche” nell’arco di quest’ultimo…
5 anni dopo, nel 1614, un giovane di Ingolstadt, tale Georg Locher, allievo dell’eclettico Christoph Scheiner, pubblicava un libretto (“Disquisitiones Mathematicae de controversiis et novitatibus astronomicis”) pieno di ammirazione per Galileo e colmo d’illustrazioni di tutte le eccitanti scoperte consentite dalla nuovissima tecnologia telescopica: le lune di Giove, le fasi di Venere, le macchie del Sole, la superficie ruvida e piena di crateri della Luna. Era però un testo anti-copernicano, il cui ricordo oggi si deve quasi solo per essere stato oggetto di scherno da parte di Galileo nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (1632).
Che cosa obietta Locher al copernicanesimo? Certo, ammette, una Terra in movimento intorno al Sole non combacia col passaggio biblico preso alla lettera, dove Giosuè ordina al Sole di fermarsi. Ma una Terra in movimento crea anche maggiori problemi all’astronomia. Uno di questi è la grandezza delle stelle nell’universo copernicano. Se la Terra si muove, come si spiega la “fissicità” delle stelle? I copernicani devono teorizzare che le stelle, anziché trovarsi giusto al di là dei pianeti come si è sempre pensato, siano così incredibilmente lontane dalla Terra che il moto di questa intorno al Sole risulti insignificante rispetto a quelle distanze. Ma allora, incalza Locher, poiché le stelle osservate dalla Terra sono punti di diversa grandezza e luminosità, esse devono essere, comprese le più piccole, così massicce e splendenti da far impallidire il Sole!
Fin qui, Locher ripete diligentemente la lezione di Tycho Brahe, un altro anti-copernicano, il più importante astronomo dell’epoca, il quale pensava fosse assurdo solo immaginarsi miriadi di soli incommensurabilmente più grandi del nostro ed era sicuro che il sistema copernicano non sarebbe sopravvissuto alla questione. Locher però non s’accontenta delle critiche di Tycho, ma sviluppa un’analisi comparata e propone un programma di ricerca per decidere tra i due massimi sistemi.
Tolomeo, prosegue Locher, aveva spiegato le irregolarità osservate ad occhio nudo nei movimenti dei pianeti teorizzando che i pianeti si muovano sì intorno alla Terra, ma che ciò facciano ruotando su orbite circolari (“epicicli”), i cui centri ruotano su orbite circolari più grandi (“deferenti”) centrate sulla Terra. Fino alla scoperta del telescopio però, ragiona Locher, questa era solo un’ipotesi, perché nessuno poteva determinare se gli epicicli esistessero davvero. Ora il telescopio di Galileo permette misure più accurate, che rivelano per esempio le lune di Giove, ruotanti in orbite che sono epicicli dell’orbita di Giove. Dunque, Tolomeo ha ragione su un primo punto: gli epicicli esistono per alcuni corpi celesti, visti e misurati col telescopio galileiano! Ma gli epicicli paiono esistere anche per i pianeti: tutte le osservazioni al telescopio sono infatti coerenti con l’ipotesi che Giove, Venere, gli altri pianeti ed anche le macchie solari, come Tycho aveva mostrato coi suoi dati, ruotino su epicicli intorno al Sole, il quale infine ruota intorno alla Terra. In questo sistema geocentrico, tutto è coerente con le osservazioni telescopiche ed il problema della dimensione delle stelle non si pone.
È il sistema tychonico: il Sole, la Luna e le stelle ruotano intorno alla Terra, fissa al centro dell’universo; i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno ruotano intorno al Sole; i satelliti intorno ai loro pianeti. Si tratta ora di osservare, conclude Locher, con telescopi sempre più potenti, se il sistema vale anche per Saturno e le sue “protrusioni” (che noi oggi sappiamo essere degli anelli). Il sistema copernicano è da rigettarsi perché 1) non spiega nulla di più del sistema tychonico, 2) crea il problema della dimensione delle stelle e 3) complica i movimenti dei corpi che si muovono sulla superficie terrestre. Alla fine, Locher prospetta un programma a lungo termine di ricerca astronomica per raccogliere dati sui cambiamenti delle protrusioni di Saturno intesi a corroborare definitivamente il sistema tychonico.
Nel Dialogo, Galileo non ribatte alle obiezioni che Locher pone al copernicanesimo su pure basi scientifiche. Né avrebbe potuto, perché già la scelta del sistema di riferimento più adatto tra i “massimi sistemi” – tolemaico, copernicano e tychonico – non era possibile senza 1) una teoria meccanica e 2) una teoria della gravitazione, che sarebbero venute una prima volta con Newton mezzo secolo dopo ed una seconda volta, in forme concettualmente differenti e maggiormente corroborate, da Einstein ad inizio ‘900.
Galileo e Locher non avevano né una teoria né l’altra, però ritengo che Locher non meriti di essere del tutto dimenticato, almeno per essersi posto il problema della gravitazione. Dalla lettura del suo trattatello, con mio grandissimo stupore, ho appreso d’un meccanismo da lui immaginato per spiegare come i pianeti possano muoversi in orbite circolari spontaneamente, in una specie di caduta perpetua. Locher vi propone ante litteram un Gedankenexperiment – “cogitatione percipi possit” sono le sue parole –, e ciò 70 anni prima della gravitazione di Newton, anzi quasi anticipando di 3 secoli il principio di equivalenza tra inerzia e gravità della relatività generale. Il meccanismo, ammette Locher, è indifferente a decidere tra i sistemi astronomici in competizione; tuttavia, aggiungo io, è il primo tentativo in scienza moderna di spiegare le orbite circolari dei corpi celesti, che non sono meno naturali della caduta verticale d’un sasso dalla Torre di Pisa o della traiettoria parabolica d’una palla di cannone lanciata dalle mura di Ingolstadt.
Oggi, che il problema di un “centro” non ha più senso né nel sistema solare né nell’universo intero, è chiaro che la vera rivoluzione galileiana in astronomia fu di abbassare il cielo alla Terra; un cielo che, da che uomo posò gli occhi insù, era stato considerato di sostanza “divina”. Il telescopio rivelò a Galileo che tutti i corpi (allora visibili) dell’universo sono probabilmente fatti della stessa “stoffa”, anche il Sole con l’imperfezione delle sue macchie. Da quell’abbassamento il potere religioso si sentì minacciato, fino ad intentare un vergognoso processo a Galileo e costringerlo all’abiura. Ma chi o che cosa stia al centro del mondo o d’una sua parte, ammesso che la questione avesse allora un senso, non poteva essere stabilito da nessuno.
Il vagabondaggio del Sole rispetto al centro di massa del sistema solare nel cinquantennio dal 1945 al 1995
Che cosa rimane oggi del copernicanesimo? Le equazioni della relatività e i dati astronomici non sono sufficienti a determinare la struttura globale dell’universo fisico: ne uscirebbero infiniti mondi diversi. Servono ipotesi addizionali, se vogliamo disporre di teorie scientifiche descriventi l’universo reale in cui abitiamo. Seguendo Einstein, i cosmologi adottano il postulato di uniformità spaziale nella distribuzione della materia. Ovviamente non un’uniformità rigorosa: qua c’è una stella (con la sua densità), là un pianeta (con un’altra densità), qua c’è un buco nero (con un’altra, altissima densità) e là il vuoto (con densità quasi pari a zero). Ma su larga scala, in media, essi postulano che il cosmo sia come un gas di molecole, con una densità costante di tanti grammi per metro cubo. È questo “il vero Principio copernicano” – come lo chiamò Hermann Bondi – e non più la vecchia storia della Terra che gira intorno al Sole. Ed è chiamato copernicano con piena ragione perché, anche se Copernico non sapeva nulla di densità spaziale media della materia, esso costituisce l’ultimo ripudio dell’antropocentrismo e così porta a termine la rivoluzione iniziata dal canonico polacco.
Anche questo neo-copernicanesimo però si scontra coi dati, se l’astronomo Halton Arp può dire: “I cosmologi trascurano le osservazioni che si sono andate accumulando negli ultimi 25 anni e che ora sono divenute schiaccianti”. Per esempio, si osservano galassie separate da miliardi di anni luce e si misurano velocità relative di allontanamento così basse che sarebbero richiesti centinaia di miliardi di anni – decine di volte l’età stimata dell’universo – per produrre quelle separazioni, se fosse vero il principio di densità uniforme. Un’altra difficoltà: non c’è sufficiente materia nell’universo per generare campi gravitazionali abbastanza forti da spiegare la formazione e la persistenza delle galassie.
Tali incongruenze sono superate dai cosmologi con espedienti che peggiorano le cose. Il problema è che essi non possono rinunciare al principio di uniformità spaziale, pena la sopravvivenza della cosmologia. Cosa si fa allora se non c’è abbastanza materia nell’universo? La s’inventa, introducendo qualcosa di misteriosissimo chiamato materia oscura, una sostanza che non interagisce con i campi elettromagnetici e che di conseguenza risulta invisibile. La materia oscura è il god of the gaps che alza il campo gravitazionale ai livelli necessari a salvare il principio copernicano…, facendo saltare però l’intuizione galileiana che tutto l’universo fisico sia fatto della stessa stoffa. Anzi, i cosmologi sono costretti ad introdurre un secondo mistero doloroso, l’energia oscura, stavolta per spiegare l’accelerazione con cui l’universo si espande. Col risultato che il 95% di tutta la materia-energia dell’universo diviene “oscura”. Non è ironico che la scienza degli umani pretenda di parlare in nome di tutto l’universo trovandosi a rappresentare appena il 5%?